Lessico Famigliare – Il Figlio
A volte la vita del figlio entra in contrasto con il testo che noi portiamo sulla nostra nuca rasata. Il giovane Giacomo Leopardi rivolgendosi a suo padre definisce questo testo, questa
scrittura “il piano di famiglia”.
“Mio signor padre, sebbene dopo aver saputo cosa avrò fatto questo foglio le può parer indegno di essere letto, a ogni modo spero nella sua benignità, che non vorrà ricusare di sentire le prime e ultime voci di un figlio che l’ha sempre amata e l’ama e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella, tuttavia, mi giudicò indegno che un padre dovesse fare sacrifici per me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere o a consumarsi affatto in studi micidiali o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza malinconia privata dalla necessaria solitudine e dalla vita affatto disoccupata”
In questo caso c’è un padre che in modo violento impone al figlio non tanto il rispetto del desiderio del figlio, ma il proprio desiderio, il proprio progetto sul figlio.
“Diventerai uno studioso attraverso infiniti sacrifici”: questo è il piano di famiglia e il figlio deve corrispondere a questo piano. Ma prendiamo le cose dall’inizio, prendiamo le cose
dall’infanzia. Di cosa ha bisogno la vita di un figlio? Di cosa necessita la vita di un figlio? Usando un simbolo che la psicanalisi ha enfatizzato, un figlio ha bisogno del “seno”. Senza seno non c’è vita. Il seno è il simbolo della cura, è il simbolo del nutrimento, è il simbolo materno, della prima risposta dell’altro alla domanda del figlio. Ma noi sappiamo anche che il seno non è sufficiente alla vita di un figlio e lo vediamo quando un neonato, dopo aver succhiato al capezzolo ed essersi nutrito, rimane come appoggiato al capezzolo perché ha un’altra fame, un altro tipo di fame, non più la fame del “seno”, ma la fame del “segno”. La vita umana non si nutre solo di latte. Potremmo dire: non si nutre solo di pane, ma si nutre innanzitutto, fondamentalmente, di segni. Quali segni? I segni della presenza dell’altro, il segno della parola, il segno dell’amore. Senza il segno non c’è possibilità di nutrire veramente la vita umana e da questo punto di vista l’anoressia è la patologia che più di tutte ci educa alla differenza fra seno e segno. Le ragazzine anoressiche hanno avuto il seno, hanno avuto la cura, ma gli è mancato il segno. Per questo rifiutano il “seno”, perché vogliono il “segno” dell’amore. La vita del figlio ha bisogno sempre di segni, senza segni non c’è la vita umana e il segno più evidente è la parola. Freud racconta della sua nipotina che aveva un grande problema ad andare a dormire, era angosciata ad entrare nel proprio lettino da sola e chiedeva sempre vicino a lei la presenza della mamma, ma la mamma ad un certo punto doveva per forza comunicare alla bambina che si era fatto tardi, che doveva spegnere la luce perché era ora di dormire. La bambina rispondeva: “Spegni pure la luce, ma continua a parlarmi perché la tua parola è la luce”.
Possiamo fare un esempio contrario. É un terribile, micidiale esperimento di psicologia dell’età evolutiva, forse il primo nella storia del mondo, messo a punto da Federico II, l’imperatore poliglotta, appassionato della caccia del falco, intellettuale. Una delle domande che affliggeva Federico II era: “Qual è la lingua più fondamentale di ogni lingua? Qual è la lingua delle lingue?” E per rispondere a questa domanda escogita un esperimento terribile: prende dieci neonati, li affida a delle balie e consegna alle balie l’indicazione di non rivolgere mai la parola a questi bimbi, in modo che si avrebbe così avuto la possibilità di assistere alla nascita di una lingua non condizionata da altre lingue.
Risposta dei bambini: muoiono tutti. L’esperimento finisce in una catastrofe, perché la vita umana senza segno, senza il segno della parola è vita morta, è vita che si spegne, è vita
senza vita.
Il bambino, il cucciolo dell’uomo, ha bisogno innanzitutto della presenza presente dell’altro, ha bisogno della risposta dell’altro, ha bisogno (possiamo dire con una parola biblica) che l’altro gli dica: “eccomi!”. L’importanza fondamentale nel primo tempo della vita, nel tempo dell’infanzia è di assicurare la presenza. Però c’è un secondo tempo, però, che è il
tempo della giovinezza, il tempo dell’adolescenza, dove la vita del bambino non si soddisfa più solo della presenza dell’altro, non si soddisfa più, come accade per ogni bambino, nel soddisfare le attese dei suoi genitori, della propria maestra… questo tempo è il tempo dell’infanzia, il tempo in cui la vita del figlio dipende unicamente dalla presenza dell’altro e che è destinato a lasciare il passo a un secondo tempo, che è il tempo della giovinezza, dell’adolescenza.
Una delle etimologie del tempo dell’adolescenza consiste nell’arrivare ad avere il proprio odore. I genitori sanno che gli odori dei corpi dei loro figli adolescenti non sono proprio odori di campo, c’è qualcosa che pulsa nel corpo che nell’ordine degli sconvolgimenti che la sessualità introduce nella pubertà: tutti gli orifizi del corpo si aprono, si spalancano… è il risveglio di primavera che implica che la vita del figlio non si soddisfa più nel recinto chiuso della famiglia.
Questo significa che, se la vita del bambino necessita di casa, radice, presenza, la vita di un giovane, la vita di un adolescente è esigenza di spazi aperti, di possibilità di sperimentazione, di viaggio, di libertà.
“Ballerino, vuoi diventare ballerino? No”. “Perché no?” “Le ragazze possono fare le ballerine, i ragazzi fanno pallone, pugilato, lotta… non i ballerini…!”
Non starmi addosso, lasciami andare, lasciami fare esperienza del mondo!”. In questo senso diciamo che l’esperienza della giovinezza è esperienza pura della libertà e quindi possiamo isolare due esperienze ugualmente fondamentali nella vita del figlio. Prima esperienza: necessità dell’appartenenza. La vita umana ha questa necessità. Certo che poi dobbiamo intenderci su cosa significa famiglia. Per quello che riguarda me e per quello che insegna la psicoanalisi, la famiglia non è un dato di natura. C’è famiglia in cui i legami sono fondati sull’amore e sulla cura nei confronti dei figli, ma in ogni caso dobbiamo dire che la vita umana necessita di questi legami, deve essere nutrita da questi legami, ma al tempo stesso dobbiamo aggiungere che la vita del figlio ha anche necessità dell’erranza, dell’appartenenza, ma anche dell’erranza.
“Una delle cose che mi è stata insegnata fin da piccola è stato che la realizzazione di sé ha a che fare con la felicità. L’eredità che mi sento di dire… che mio padre e mia madre mi hanno insegnato è questo desiderio di esprimermi e di essere me stessa al di là di qualunque convenzione possibile, il fatto di decidere per me, di giocarmi tutto in questa vita. Nella mia famiglia quello che è sempre stato il simbolo della vita da adulto è lo studio, è l’indipendenza economica e mi è stato insegnato che le due cose sono strettamente legate. Per questo tutti i miei nonni, tutti e quattro, erano molto orgogliosi del fatto di essere dei laureati, di aver studiato e di aver realizzato questa parte intellettuale e, grazie a questo, di aver poi avuto una professione e di essersi mantenuti. Penso che questo concetto mi sia sempre stato molto chiaro e quindi nel momento in cui ho lasciato giurisprudenza per fare il cuoco, la prima domanda di tutti quanti è stata “Ma come si fa? Dove si studia?” e la mia risposta è stata “Non lo so, intanto vado a fare il lavapiatti” e qui ho scardinato il primo degli insegnamenti, quello che si deve fare un percorso scolastico per esercitare una professione. Mio padre era cardiologo e mia nonna era medico, sicuramente hanno imparato dall’esperienza una parte del loro lavoro, però da parte mia ho imparato guardando le mani degli altri ed è stato interessantissimo per me”.
Ecco noi abbiamo nella nostra tradizione occidentale, nel testo biblico del Nuovo Testamento una parabola molto nota che è la parabola del “Figliol prodigo” che tra le altre cose mette ben in rilievo quest’erranza da parte del figlio.
Conosciamo la parabola: un padre ha due figli, il primogenito è alla sua ombra, fedele e lavora insieme a lui. Il secondogenito scalpita e così si apre la parabola, con un imperativo che il secondogenito rivolge al padre, imperativo con cui fotografiamo la giovinezza contemporanea, la giovinezza ipermoderna: “Dammi la parte delle tue sostanze che mi spetta!” Questo padre come risponde? Come risponde a questo gesto parricida del figlio? Potrebbe rispondere invocando la legge, invocando il diritto “Ah sì? Ti devo dare?!? Ti faccio lapidare!”. Questo è un punto essenziale: i figli hanno sempre diritto alla rivolta, i figli hanno diritto al conflitto, anzi la condizione del figlio è il conflitto e la rivolta. Ma un genitore non deve rispondere al conflitto del figlio in modalità simmetrica, cioè col conflitto. Questo padre della parabola di Luca ci insegna molto bene la postura fondamentale del genitore col figlio, che non è replicare al conflitto del figlio con il conflitto, entrando in una fase di braccio di ferro simmetrico, senza possibilità di scampo né per l’uno né per l’altro. Questo padre riceve il conflitto del figlio, ma risponde in modo asimmetrico. Dunque il figlio chiamato prodigo invoca il diritto alla rivolta, invoca il diritto al viaggio e inizia il suo cammino.
Questo padre cosa fa? Non si appella alla legge, ma dice al figlio (ecco la parola chiave che deve essere messa in rapporto con la parola “eccomi”, che è la prima parola del genitore verso il figlio inerme): “vai”. La seconda parola, quella del tempo della giovinezza, è “vai”. Questo dice il padre, apre la porta e dice “vai”.
Questo padre ha fiducia del segreto del figlio, ha fede nel desiderio del figlio. Sappiamo bene come va a finire il viaggio del figlio: è un’erranza, il figlio si trova a contendere il cibo con i porci, dissipa tutta l’eredità ricevuta dal padre e ad un certo punto torna a casa e qui abbiamo il secondo gesto del padre. Avrebbe potuto impugnare la frusta, impugnare il bastone, avrebbe potuto castigare il figlio, ma non castiga il figlio. Il ritorno del figlio è descritto in modo straordinario da Rembrandt in un dipinto famoso che descrive il ritorno di questo figlio vestito di stracci.
E Rembrandt rappresenta il padre con due mani: una è la mano del padre e l’altra è la mano femminile della madre. E perché Rembrandt rappresenta così questo padre? Perché il padre si rifiuta di impugnare il bastone, è il padre che sa accogliere, che non interpreta la legge solo come un esercizio punitivo e patibolare, ma che anzi sospende la legge del castigo per invocare un’altra forma di legge, che è la legge dell’amore che accoglie il figlio, la legge che fa del ritorno del figlio una vera e propria festa, festa che lascia sconcertato il primogenito. Ma qual è la colpa del primogenito? La colpa irredimibile del primogenito è d’aver tradito la sua condizione di figlio, cioè d’aver interpretato l’eredità solo come fedeltà passiva, d’aver interpretato l’eredità a cui ogni figlio è chiamato (ogni figlio è chiamato ad essere un giusto erede) come clonazione, ripetizione, riproduzione della vita del padre. È il secondogenito che insegna che per essere un giusto erede bisogna essere sempre eretici, che l’eretico è il giusto erede e l’eretico è colui che assume la responsabilità del fallimento, della sconfitta, dello sbandamento, dello sconfinamento, cioè del viaggio. È solo perché c’è viaggio, c’è errore, c’è erranza che c’è la possibilità di cambiare, di trasformare la propria vita. Chi rimane fermo, come accade al primogenito, è colpevole di un’interpretazione scorretta dell’eredità.
L’ultima frase che conclude l’ultima opera di Freud è una frase che definisce il compito del figlio come “il saper ereditare”, frase che cita da Goethe. La frase dice più o meno “Se vuoi davvero possedere quello che il padre ti ha lasciato, devi saperlo riconquistare”. La vita del figlio ha il compito di realizzare se stessa, cioè di realizzare il proprio desiderio, di realizzare (come ascolteremo tra poco in chiusura in uno straordinariobrano tratto da Nemesi) la vita di figlio come se fosse un tuffo in acque di lago pure e trasparenti.
“Non aveva ancora avuto modo di salire sul trampolino e tuffarsi, ma da tutto il pomeriggio ci pensava, come se non potesse dirsi davvero lì finchè non avesse fatto quel primo tuffo. S’incamminò lungo lo stretto pontile di legno che portava al trampolino, si tolse gli occhiali e li posò al fondo della scaletta, poi mezzo cieco si arrampicò fino alla tavola. Guardando davanti a sé distingueva la tavola fino al bordo, ma poco altro: le colline, i boschi, l’isola bianca, addirittura il lago erano spariti. Era solo. Sul trampolino. Sopra il lago. E non vedeva quasi nulla. L’aria era piacevolmente calda, il suo corpo era piacevolmente caldo e si udiva solo il rintocco delle palle da tennis e di tanto in tanto un rumore metallico quando in lontananza qualche campista tirava un ferro di cavallo e centrava il piolo. Si riempì i polmoni dell’aria innocua e pulita, poi fece tre saltelli in avanti, prese lo slancio e, controllando durante il volo alla cieca ogni centimetro del suo corpo, entrò con un semplice tuffo d’angelo in quell’acqua che riuscì a vedere solo l’istante prima che le sue braccia la fendessero con eleganza e lui piombasse in profondità nella fredda purezza dell’acqua”.