Voce del parroco

Come salvare i nostri figli dalla nostra cattiva educazione

Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo.
Magari tu fossi freddo o caldo!
Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo,
sto per vomitarti dalla mia bocca.
Apocalisse 3, 15-16

Alcuni recenti fatti di cronaca sono divenuti stimolo per una riflessione sugli attuali sistemi educativi verso i nostri ragazzi. Sono almeno cinque i casi di professori picchiati o umiliati da inizio anno [si sta scrivendo nei primi giorni di febbraio, n.d.r.] da studenti o genitori che si lamentavano con loro circa il carico di lavoro – ritenuto eccessivo – o una media voto non adeguata al loro palato.

È ora di fare qualche chiarimento da un punto di vista pedagogico, psicologico ed etico partendo da quest’assioma: stiamo costruendo una società in cui gli adulti vogliono il male di coloro che hanno messo al mondo.

Quello che manca agli educatori – e in particolare ai primi educatori, ossia i genitori – è il coraggio. Il coraggio di credere in sé stessi e di trasmetterlo ai propri figli, che si traduce nella possibilità di superare le difficoltà di tutti i giorni nella scuola, sulla strada, con gli amici, per affermare le proprie idee, la propria libertà e autonomia, per non rinunciare ai propri sogni con la giusta dose di autostima. Perché coraggio significa agire sapendo che la propria fiducia nel successo è molto più forte della paura del fallimento: un insegnamento fondamentale per tutti coloro che hanno a cuore il proprio ruolo di adulti e il destino degli adulti di domani.

E invece? Invece predomina la paura, quella che il filosofo Heidegger concepiva come la tipica situazione emotiva di una vita inautentica, caratterizzata dalla paura di perdere le cose che si hanno e dall’incapacità di progettare il proprio futuro. Cosa significa?

Che i genitori cercano di comprarsi l’affetto e la stima dei propri figli accontentandoli su tutto, rinunciando “de facto” ad educarli e non permettendo loro di emanciparsi. È importante comprendere come un bambino rimanga tale fino a quando non incontri la legge, ossia fino a quando non faccia esperienza del “no”.

Questo è il peccato originale dell’educazione che stiamo propugnando alle nuove generazioni, ed è proprio il peccato originale di cui si parla nel secondo e terzo capitolo della Genesi.

Cerco di spiegarmi meglio; quando Dio comanda ad Adamo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” (Gen 2, 16-17), gli sta dicendo: “Tu non puoi mangiare, cioè assimilare e possedere tutta la conoscenza.

Tu non puoi essere il principio, l’origine di tutta la realtà e per questo libero di manipolarla a tuo piacere”.

Ma il punto è che questo monito viene espresso sotto forma di comando perché è nel rapporto con la legge che l’uomo scopre l’alterità.

La legge serve proprio a fargli capire che lui non è il solo essere vivente al mondo, ma che esistono anche gli altri, che non vanno trattati come oggetti per soddisfare i propri bisogni o capricci, ma come soggetti dotati di diritti tali e quali ai suoi. L’incontro con l’altro gli permette dunque di definire la propria identità in rapporto al suo mondo, costruendo quell’impalcatura fatta di norme etiche, morali e sociali capaci di renderlo un membro attivo della sua comunità. E come si fa?

Quando da bambino si comincia a dirgli: “No! Questo tu non lo puoi fare”, alla richiesta di una spiegazione gli si risponde: “Perché no!”, forse è meglio che si rinunci a fare il genitore, ma se invece gli si risponde: “Non puoi perché c’è anche il tuo amico e lui è come te e deve avere il tuo stesso giocattolo”, scopre che al mondo non c’è solo lui, ma che ci sono anche gli altri, il cui spazio va rispettato.

La Costituzione italiana all’articolo 30 obbliga il genitore ad educare i propri figli. Obbliga, capite bene? Ed educare non implica necessariamente dare soldi al proprio figlio tutte le volte che lo richiede per andare a divertirsi, così come non vieta ai genitori di togliere il telefonino e internet quando non c’è reciprocità di impegni e obiettivi.

Altrimenti è come insegnare che nella vita si può pretendere tutto senza dare in cambio nulla! Se ad un ragazzino si dà tutto, gli si fa un danno gravissimo poiché gli si toglie il desiderio. Come si fa infatti a desiderare quello che si ha già? Come si fa a non crescere depressi, svogliati, annichiliti, senza la capacità di reagire alle perdite?

La vita va scoperta sperimentando il dolore, le cadute, le delusioni. I nostri bambini e i ragazzi sono invece iper-protetti e questo è un problema.

Come afferma lo psichiatra Crepet, la nostra è una società che angoscia i ragazzi con le stesse angosce che gli adulti hanno per i problemi dei figli. Occorre cadere dalla bici da piccoli, altrimenti la prima volta che si cade per terra a trent’anni ci si ammazza.

E così facendo cresce una generazione di deboli, inetti ed idioti: deboli perché non essendo stati allenati da piccoli, non si riescono a sopportare le sconfitte o accettare le sfide; inetti perché il problema del mal di vivere viene sempre ricercato all’esterno e mai all’interno (è colpa della scuola, della politica…) e manca un qualsiasi sforzo atto ad assumersi la responsabilità dei propri risultati negativi nel tentativo di migliorarsi; infine idioti.

Il senso etimologico della parola idiota deriva da idion che sta a significare “uomo di quel luogo particolare”, che per i greci indicava colui che non aveva accesso alla dimensione universale, ma che viveva nella caverna (Platone), nella sua caverna, isolato dagli altri.

Pensate agli studenti che rifiutano per comodità, con l’esplicito avallo dei genitori, di trasferirsi in un’altra città per frequentare l’Università, per fare un Erasmus, per stimolare la propria curiosità e il proprio ingegno. Il risultato è che ci sono tre milioni di ragazzi con meno di trent’anni che non studiano e non lavorano. E non è solamente un problema di crisi economica!

Abbiamo insegnato ai nostri figli ad esser vittime. Il vittimismo impera tra i giovani che non riescono (o non vogliono?) ottener dei risultati dalle loro vite. Lo vediamo in certe esternazioni sui social network, quando postano situazioni di emarginazione al fine di accaparrare qualche like per esser al centro dell’attenzione, così come in certi programmi televisivi, dove si esalta paradossalmente colui che non ce la fa, senza però cercare di trovare delle soluzioni per aiutarlo a superare tali difficoltà.

Ma quello che è più grave è che attraverso questo tipo di atteggiamento c’è il tentativo da parte di queste persone di affermare la propria unicità, non attraverso i meriti, ma dal fatto che ci si sente così unici che gli altri non possono comprendere appieno il nostro dolore e la nostra condizione di miseria. Questa clinicamente si definisce come una devianza del proprio orgoglio personale.

Perché chi si crogiola nel vittimismo, rifiuta ogni responsabilità al riguardo. Anzi, di fronte ad un richiamo sul punto, cercherà conforto in un ulteriore isolamento, sospinto dalla convinzione che nessuno riesca a comprendere realmente la sua condizione, in una spirale di masochismo destinata a portarlo sempre più a fondo in un perverso compiacimento. Sia chiaro, non si sta dicendo che si devono ignorare o sbeffeggiare il dolore e le crisi: fanno parte della vita e non si possono eludere.

Sfogarsi e piangere sono reazioni emotive giuste, perché ci svuotano delle emozioni negative e allo stesso tempo ci permettono di avere spazi nuovi da riempire di emozioni nuove e positive, che ci spronino a fare.

Ma, appunto, non devono privarci della nostra possibilità di andare avanti. L’eterno presente in cui vivono i nostri ragazzi rende impossibile la dimensione della progettualità che ha il futuro come orizzonte temporale.

E questo ripiegamento su se stessi li immobilizza, trasformandoli in larve.

I fondatori dell’ethos dell’Occidente, dai greci ai filosofi medioevali, pensavano concordi che l’accidia fosse uno dei più grandi vizi, proprio perché all’origine di altre forme derivate di disordini o di malattie del vivere, quali la pigrizia, l’incostanza, l’incuria (che è la prima etimologia dell’accidia), la mancanza di senso della vita, la rassegnazione e le depressioni, a volte anche quelle cliniche. Per questa ragione l’accidia minacciava non solo il bene del singolo ma, come ogni vizio, anche il bene comune e la pubblica felicità, che sono il frutto dell’azione di persone dedite e impegnate. La vita buona è vita attiva, è compito, dinamismo, impegno civile, politico, economico, lavorativo, ragion per cui quando nel corpo sociale si insinuava il virus dell’accidia occorreva combatterlo, respingerlo, espellerlo, per non morire. Il vizio, come la virtù, è prima di tutto una categoria civile: le virtù sono buone strade per la fioritura umana, i vizi ci deviano e portano all’appassimento della vita.

Per questo una scuola che insegna il principio che siamo tutti uguali insegna una grande bugia.

Uno vale, uno è una sciocchezza! Non siamo tutti uguali. Dove sta allora il merito? Ridurre le disuguaglianze non significa eliminare le nostre specificità, ma dare a ciascuno – in base alla propria situazione – gli strumenti adeguati per poter eccellere. Abbiamo invece ucciso l’ambizione quasi fosse un male. Veniamo da anni di predominio ideologico di dilettanti allo sbaraglio, in cui l’idea stessa di competenza ha coinciso con quella di casta.

Come all’epoca del comunismo asiatico trionfante, quando gli sgherri di Mao e Pol Pot umiliavano chiunque inforcasse gli occhiali, sintomo di cultura e dunque di privilegio.

Per troppo tempo la frase più letta sul web è stata: “Che ci vorrà mai a guidare un partito, a far funzionare un’azienda, a segnare un gol, a insegnare…?”

Alla rabbia sacrosanta di chi si sente escluso non per mancanza di conoscenza, ma di conoscenze (intese come raccomandazioni) si è aggiunta quella assai meno onesta degli invidiosi, che attribuiscono il proprio fallimento a una congiura e, non sapendo innalzare sé stessi, sminuiscono i talenti di chi c’è riuscito. Ecco, l’invidia, altro vizio capitale ed origine di tutte le discordie tra i fratelli. Lo è stato anche per Caino e Abele. Genesi 4 presenta due fratelli che, proprio per il fatto di essere due e non uno solo, sono diversi. Non vi è ingiustizia in questo, è inevitabile. Eppure questi due fratelli hanno una percezione diversa sia del loro rapporto con Dio, sia del modo di percepire la propria vita. Un diverso modo di riuscire nella vita se vogliamo, che viene espresso attraverso un diverso accoglimento da parte di Dio: “E guardò il Signore verso Abele e la sua offerta e verso Caino e la sua offerta non guardò”.

Siamo soliti interpretare questo passaggio asserendo che Dio preferisce Abele perché buono, mentre Caino è cattivo, ma il testo non afferma nulla di ciò.

Questo perché abbiamo una concezione della giustizia di tipo retributivo, secondo la quale chi compie il bene riceve in premio il bene, mentre chi fa il male ottiene in cambio il male. Ma la giustizia retributiva non è la giustizia di Dio, come mostrano la parabola dei 10 talenti (Mt, 25,14-30) e la parabola dei lavoratori della vigna (Mt, 20,1-16), e non è nemmeno la giustizia di cui l’uomo fa esperienza, perché questo automatismo è continuamente smentito.

Bastano i libri di Giobbe e del Qoelet a ricordarcelo.

Quello che emerge dal brano è il mistero della elezione divina, della libera scelta da parte di Dio.

Intendiamoci però bene: quando diciamo che Dio sceglie uno, non vuol dire che rifiuta l’altro.

Dio ha un progetto particolare per ognuno di noi, che peraltro deve poi servire a tutti gli altri.

L’amore di Dio è diverso per ciascuno proprio perché ciascuno è diverso dall’altro. E ciò che ci fa diversi è il diverso modo con cui Dio ci ama.

Siccome l’unico modo che noi abbiamo per esistere è di essere diversi gli uni dagli altri, questo implica necessariamente che Dio ci ama in modo diverso. Ma appena si percepisce la diversità dell’amore di Dio come sfavorevole, la si considera ingiusta e nasce l’invidia. Il racconto di Caino e Abele dunque è stato inserito nei racconti di origine non per raccontare la storia dei due fratelli, ma di ogni uomo. Non è dunque Abele il vero problema di Caino; il problema è il suo rapporto con Dio e il suo modo di capire e accettare l’amore di Dio per lui.

Allo stesso modo, anche noi cerchiamo costantemente capri espiatori per dare una giustificazione alle nostre esistenze, senza che questa spiegazione però implichi un atteggiamento propositivo da parte nostra.

Bisogna studiare, impegnarsi, faticare per ottenere risultati. Il vizio è l’accontentarsi delle ghiande dei porci e perdere i cibi della tavola di casa.

La ricerca di un piacere piccolo e sbagliato si ritrova proprio nell’accidia, che arriva in seguito a traumi, delusioni, lutti, ferite. Invece di mettercela tutta per riprendersi e rialzarsi ci si commisera, ci si lecca le ferite.

In questo crogiolamento accidioso si riesce a provare anche una certa consolazione e persino una forma di piacere, un dolce naufragar che fa sopravvivere – ma non vivere – dopo la crisi.

E come per tutti i vizi, la cura più efficace è individuare i primi sintomi e bloccare subito il processo veloce e cumulativo. Non chiudere i processi, lasciare i lavori a metà, non rileggere l’ultima bozza di un articolo, provare tedio per il lavoro ben fatto. “Mi alzerò e andrò da mio padre”: è questa la risposta virtuosa all’accidia a cui basterebbero le ghiande. (Lc 15, 8-10)

La verità è che la maggior parte di quello che è comodo non porta a nulla.

Questa è una lezione che si apprende dalla cultura contadina bergamasca (di cui tutti noi dovremmo esser figli), basata sul lavoro. Che si esprime nel: studia se hai da studiare, lavora bene se hai da lavorare, impegnati al massimo se fai sport, esercitati con la musica ogni giorno se stai imparando uno strumento. In qualsiasi caso temprati, ambisci, costruisci. Dopodiché, non contare su alcuna remunerazione emotiva.

Che si traduce nel: “Papà, ho preso 9 nella versione di greco”, “Te facc adóma ol tò doér” (Hai fatto solo il tuo dovere). La vita è dura e io te la voglio insegnare, per cui testa bassa e via andare!

Le cose si fanno per il loro valore intrinseco, non certo per i complimenti. Anche la malattia subisce lo stesso trattamento: un mal di pancia, ma pure una tristezza, non si curano con le medicine, verso le quali persiste, nei genitori orobici, una radicata diffidenza, bensì con la formula magica: “Sta’ mia lé a cuàl però”. (Non stare lì a covarlo, a coccolartelo, il male). Non rimuginarci sopra. Alzati, fai altro. Combattilo.

Ma qual è l’attività più nobile, più alta tra tutte? Hannah Arendt pensava fosse l’azione politica. Solo in quest’azione infatti l’uomo si rivela e, benché possa essere in parte condizionato e motivato da interessi contingenti e individuali, riesce a superarli e a trascenderli. Se non fosse così, l’azione non potrebbe essere ‘memorabile’ e quindi degna di attenzione e ricordo, ma ricadrebbe nell’ambito del lavoro e dell’opera, poiché risponderebbe soltanto a requisiti di necessità e utilità. È la pluralità che promuove e favorisce la manifestazione dell’agire. Mentre molte altre facoltà umane, come il pensiero, la volontà e la creatività sono esercitabili anche nell’isolamento, l’azione politica è la sola attività che “mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”. È solo così che il tempo che viviamo non si riduce semplicemente a quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.

“Le origini del totalitarismo” è il più grande lavoro di questa brillante filosofa. Benché sia stato pubblicato nel 1951, non si può fare a meno di collegare alcuni suoi passaggi ai dibattiti attuali che stanno riempiendo Facebook, riguardanti i webeti, le bufale e la falsa informazione, derivanti dalla mancanza di cultura e dal pressappochismo populista, che ha sostituito la struttura dei partiti tradizionali e che sta caratterizzando il panorama politico odierno.

Ne cito solamente un paio, ma emblematici, che palesano il processo circolare della storia politica europea sino ai giorni nostri: “I movimenti totalitari trovano un terreno fertile per il loro sviluppo dovunque ci sono delle masse che per una ragione o per l’altra si sentono spinte all’organizzazione politica, pur non essendo tenute unite da un interesse comune e mancando di una specifica coscienza classista, incline a proporsi obiettivi ben definiti, limitati e conseguibili”.

“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.” Ecco perché al centro del rinnovamento sociale non basta una critica della situazione politica attuale, ma ci deve essere una scelta consapevole individuale di investimento nei confronti della cultura e del sapere, dalle quali passa quell’atteggiamento virtuoso basato sull’impegno, sulla voglia di fare, sulla voglia di meravigliarsi.

Da questa crisi, troppo seria per appaltarla alle sole scelte economiche e finanziarie, usciremo solamente trasformando rassegnazioni, abbattimenti e accidie di molti cittadini e di intere nazioni in nuovi progetti politici e in un nuovo entusiasmo civile, riaggregando solitudini in destini sociali comuni, passioni tristi e sterili in passioni liete e generative, vizi in virtù civili.

E con questo auspicio, di una nuova possibilità di essere nel mondo per gli altri, auguro a tutti voi un sereno cammino nell’amore di Cristo per ogni uomo.

Don Vittorio


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